Coda di lupo

0 Condivisioni

Coda di lupo è un brano di Fabrizio De Andrè inserito nell’album Rimini pubblicato nel maggio1978, album prodotto insieme a Massimo Bubola che è coautore di tutti i brani. 

Ecco come Fabrizio De André ci spiega la canzone:

“Un brano come Coda di lupo è una disperata disamina del fallimento della rivolta sessantottina e del riflusso della speranza della fantasia al potere nell’area dei gruppi autonomisti’ come gli indiani metropolitani.

Non a caso l’illustrazione che, nel libretto che accompagna il disco, si accoppia alla canzone è quella del venditore di cocomeri: un modo di dire, è fallito tutto, andiamo a fare un mestiere qualsiasi, allora vendere cocomeri può valere come “andare a cacciare bisonti in Brianza”, come recita un verso del brano.

Analisi della canzone

“Introduce il mondo degli indiani, ed è la storia di un bambino che, diventato uomo, scegli il nome di Coda di lupo e fa il suo ingresso nel mondo dei grandi, prima rubando un cavallo, poi uccidendo uno smocking, forse per vendicare la morte del nonno crocifisso sulla chiesa nella notte della lunga stella con la coda. Da vecchio assiste all’arringa del generale (riferimento al sindacalista Luciano Lama, criticato per il suo moderatismo) agli universitari romani, ma si rifiuta di fumare con lui: “non era venuto in pace”. 

Il brano annuncia la fine delle grandi contestazioni e delle rivendicazioni sindacali ed esorta a non credere mai al “Dio della Scala”, a un “Dio a lieto fine”, ma neanche a un “Dio fatti il culo”.

[Matteo Borsani – Luca Maciacchini, Anima salva, p. 112]

Il testo narra metaforicamente e in modo fantasioso della parabola di una vita, dalla fanciullezza alla vecchiaia, personificata da un ideale indiano d’America.

La canzone parla dell’ uomo che prima vive nell’illusione, quando è piccolo (il personaggio della canzone si chiama appunto Coda di Lupo), non si accorge del male, poi crescendo si accorge di tutto il male e si scontra con la realtà degli adultie si rifugia nei suoi ideali.

Ma il tema di Coda di Lupo è prettamente politico, ma qui  a differenza della trattazione politica in “Storia di un impiegato” troviamo un De André più distaccato e disincantato e il testo scivola sull’ironico.

Il testo racconta il fallimento dei moti sessantottini, partendo dal parallelismo tra indiani di America e gli indiani metropolitani, uno dei gruppi studenteschi di protesta nati proprio sulla spinta del ’68. 

La canzone contiene alcuni riferimenti a fatti politici dell’epoca e quello centrale del testo è  la cacciata di Luciano Lama dall’Università di Roma nel 1977Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little-Big-Horn capelli corti generale ci parlò all’università dei fratelli tute blu che seppellirono le asce ma non fumammo con lui non era venuto in pace”

Luciano Lama è il generale, segretario della CGIL, contestato e cacciato dall’Università per le posizioni sottomesse dei sindacati nei confronti della realtà governativa italiana, che di fronte ad un movimento di protesta eterogeneo e ricco di valori, rimangono inermi

E nel testo Fabrizio De André rimprovera la linea politica sottomessa dei sindacati e degli operai “i fratelli tute blu che seppellirono le asce”

I sindacati infatti videro accogliere alcune istanze, che tutto sommato furono concesse dal potere per spegnere i fuochi delle proteste. I “fratelli tute blu”, cioè i metalmeccanici, avevano iniziato a credere al Dio degli inglesi (sono i valori della borghesia) accontentandosi di un apparente benessere, e soprattutto al “Dio fatti il culo”: lavorare abbassando la testa, per portare a casa il denaro e costruirsi una serena vita borghese. 

La conclusione della canzone è affidata alla disillusione, al distacco triste ed emotivo, impotente, di fronte al disfacimento della protesta giovanile e alla sconfitta inevitabile.

Testo Coda di Lupo

Quando ero piccolo m’innamoravo di tutto correvo dietro ai cani

e da marzo a febbraio mio nonno vegliava

sulla corrente di cavalli di buoi

sui fatti miei sui fatti suoi

 

E al Dio degli inglesi non credere mai

 

E quando avevo duecento lune e forse qualcuna è di troppo

rubai il primo cavallo e mi fecero uomo

cambiai il mio nome in “Coda di lupo”

cambiai il mio pony con un cavallo muto

 

E al loro Dio perdente non credere mai

 

E fu nella notte della lunga stella con la coda

che trovammo mio nonno crocifisso sulla chiesa

crocifisso con forchette che si usano a cena

era sporco e pulito di sangue e di crema

 

E al loro Dio goloso non credere mai

 

E forse avevo 18 anni e non puzzavo più di serpente

possedevo una spranga un cappello e una fionda

e una notte di gala con un sasso a punta

uccisi uno smoking e glielo rubai

 

E al Dio della Scala non credere mai.

 

Poi tornammo in Brianza per l’apertura della caccia al bisonte

ci fecero l’esame dell’alito e delle urine

ci spiegò il meccanismo un poeta andaluso

“per la caccia al bisonte disse il numero è chiuso”

 

e a un Dio a lieto fine non credere mai.

 

Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little-Big-Horn

capelli corti generale ci parlò all’università

dei fratelli tute blu che seppellirono le asce

ma non fumammo con lui non era venuto in pace

 

E a un Dio fatti il culo non credere mai.

 

E adesso che ho bruciato venti figli sul mio letto di sposo

che ho scaricato la mia rabbia in un teatro di posa

che ho imparato a pescare con le bombe a mano

che mi hanno scolpito in lacrime sull’arco di Traiano

con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia

ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria

 

E a un Dio, e a un Dio

e a un Dio, e a un Dio

senza fiato non credere mai.

 

Seguimi sui social
0 Condivisioni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.