Don Raffaè

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Don Raffaè è una è ispirata a Raffaele Cutolo?

Ecco la risposta di Fabrizio De André:

“Sì, e ho ricevuto da lui tre lettere e un libro di poesie. 

Le bande camorristiche e mafiose, chiamiamole ormai istituzioni antistatali, nascono dove lo Stato lascia i buchi e quindi danno loro il lavoro, lavoro sporco, fottuto a chi non ne ha. 

Arrivano quindi a gestire un potere e hanno la possibilità di fare dei favori, dei piaceri, anche se quello che chiedeva il brigadiere in Don Raffaè era un piacere ridicolo. Farsi prestare il cappotto è una burla che però fa capire le carenze dello Stato e i motivi per cui questi buchi vengono riempiti. 

Io considero istituzione mafiosa anche la chiesa o la massoneria. Qualsiasi organizzazione nel momento stesso in cui diventa tale, ha bisogno di militarizzarsi per difendere le proprie opinioni, le regole della stessa organizzazione e da qui direi che scaturiscono le guerre se parliamo di ampie organizzazioni come gli Stati. 

Ti sto parlando da libertario, sono un anarchico e così ti rispondo. Ma dalle grandi organizzazioni come appunto gli Stati si può scendere alle piccole organizzazioni fino addirittura alle famgilie“. (in A. Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De André, F.lli Frilli Editori anno 2000)

La canzone è la terza traccia dell’album Le nuvole, pubblicato nel 1990. Scritta dallo stesso De André insieme a Massimo Bubola e composta da Mauro Pagani e ha la particolarità di essere cantata in dialetto napoletano.

Don Raffaè: di cosa parla

De André si ispira a Cutolo ma la canzone non è dedicata lui. 

Don Raffaè è solo la scusa per denunciare qualcosa di più grande e più grave.

La canzone denuncia la situazione critica delle carceri italiane negli anni ottanta e mette in mostra la sottomissione dello Stato italiano al potere della criminalità organizzata.

“Prima pagina venti notizie

ventuno ingiustizie e lo Stato che fa

si costerna, s’indigna, s’impegna

poi getta la spugna con gran dignità” 

La canzone è impostata sul racconto del rapporto tra il brigadiere degli Agenti di custodia del carcere di Poggioreale di Napoli, Pasquale Cafiero e il boss della camorra “Don Raffaè” (cioè il boss napoletano della camorra Raffaele Cutolo) che si trova incarcerato in questo carcere. 

Io mi chiamo Pasquale Cafiero

E son brigadiero del carcere, oiné

Io mi chiamo Cafiero Pasquale

E sto a Poggio Reale dal ’53”

L’agente di custodia, è sottomesso e corrotto dal boss, gli offre speciali servigi (ad esempio fargli la barba), gli chiede diversi favori personali (come il prestito di un cappotto elegante da sfoggiare a un matrimonio o la ricerca di un lavoro per il fratello disoccupato da anni, se lo ingrazia con molti complimenti e gli offre ripetutamente un caffè, del quale esalta la bontà.

Un rapporto clientelare che rappresenta le dinamiche di potere esistenti fra criminalità organizzata e Stato nell’Italia dell’epoca.

Poi c’è il caffè, che è un tema che ricorre nella canzone:

“Ah, che bell’ ‘o cafè

pure in carcere ‘o sanno fa

co’ a ricetta ch’a Ciccirinella

compagno di cella, c’ha dato mammà”

Come afferma De Andrè: “Ho ricevuto da lui (Raffele Cutolo) tre lettere e un libro di poesie” ma il cantautore genovese evitò ogni rapporto con il boss della camorra.

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