La ballata degli impiccati

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La ballata degli impiccati è una canzone contenuta nell’album Tutti morimmo a stento del 1968, da notare che il primo verso di questa canzone da il titolo all’album in cui è contenuta.

 

La ballata degli impiccati
La ballata degli impiccati

 

Questa canzone di De André deriva direttamente, anche se non ne riprende il testo, dalla Ballade des pendus  di François Villon, il grande poeta “maledetto” francese del Medioevo, che sulla forca aveva visto morire i suoi compagni. Poesia che fu poi musicata da Louis Bessières e interpretata Serge Reggiani; ma le influenze villoniane sono decisive anche su Brassens, autore a sua volta di diverse canzoni dove sono presenti impiccati, prima fra tutte La messe au pendu.

Ma nella sua canzone, De André va molto oltre. La tradizione degli impiccati vuole che essi, come del resto molti altri condannati a morte, raccontino la loro triste vita ed i motivi che li hanno portati al patibolo, cogliendo un’ultima occasione per chiedere perdono a Dio e agli uomini.

De André invece ci presenta degli impiccati che non chiedono nessun perdono.

Ci presenta degli impiccati pieni di furore e di rancore. Ci presenta una bestemmia, non una preghiera. Ci presenta una frase che dovrebbe essere ricordata a tutti coloro che, nel mondo, ancora oggi, pronunciano una condanna a morte: Prima che fosse finita, ricordammo a chi vive ancora che il prezzo fu la vita per il male fatto in un’ora. Si potrebbe andare oltre e ricordare “a chi vive ancora”, che spesso e volentieri la vita è il prezzo per non aver fatto niente di male, neppure in un’ora, neppure in un minuto. E’ addirittura il prezzo riservato a chi si è rifiutato di fare del male, dato che l’impiccagione è una delle più diffuse pratiche di esecuzione applicate ai disertori. A chi, quindi, si rifiuta di uccidere, viene riservata la pena ignominiosa. La stessa applicata a chi combatte per la libertà da un oppressore.
Gli impiccati di questa canzone sono uomini fino in fondo. Non indulgono alla paura del “divino”, neppure nel momento estremo. Si augurano umanissimamente che chi li ha fatti finire a quel modo abbia a subire lo stesso destino. Arrivano ad augurare il male al beccamorti che li ha sotterrati come se nulla fosse, come da suo mestiere.

E’ la canzone del rancore, questa. Il rancore di chi si vede strappare la vita da un potere che ha deciso la morte, magari lo stesso potere che biascica su qualche panca di chiesa che solo Dio ha facoltà di dare e togliere la vita, ma che poi, in terra, agisce in tutt’altro modo.

E’ un discorso sospeso. Il dolore non genera qui rassegnazione, ma rabbia. La Ballata degli impiccati di De André è, in questo senso, anche una canzone politica. Da quei corpi che tirano calci al vento si promette che la storia non finisce qui. Continua, e continuerà per sempre, gridando contro.

 

 

 

La ballata degli impiccati

 

Tutti morimmo a stento

ingoiando l’ultima voce

tirando calci al vento

vedemmo sfumare la luce.

 

L’urlo travolse il sole

l’aria divenne stretta

cristalli di parole

l’ultima bestemmia detta.

 

Prima che fosse finita

ricordammo a chi vive ancora

che il prezzo fu la vita

per il male fatto in un’ora.

 

Poi scivolammo nel gelo

di una morte senza abbandono

recitando l’antico credo

di chi muore senza perdono.

 

Chi derise la nostra sconfitta

e l’estrema vergogna ed il modo

soffocato da identica stretta

impari a conoscere il nodo.

 

Chi la terra ci sparse sull’ossa

e riprese tranquillo il cammino

giunga anch’egli stravolto alla fossa

con la nebbia del primo mattino.

 

La donna che celò in un sorriso

il disagio di darci memoria

ritrovi ogni notte sul viso

un insulto del tempo e una scoria.

 

Coltiviamo per tutti un rancore

che ha l’odore del sangue rappreso

ciò che allora chiamammo dolore

è soltanto un discorso sospeso.

 

 

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