Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio)

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Un matto, canzone contenuta nell’Album Non al denaro non all’amore né al cielo” di Fabrizio De André, ha come spunto questo scarno testo originale del poeta americano Edgar Lee Masters.

L’articolo è stato scritto dal gruppo Princesa, una formazione musicale che interpreta le canzoni di Fabrizio De André.

 

Frank Drummer, di E. L. Masters

 

Nella poesia dell’autore americano vi è molto ben sviluppato il tema dell’incomunicabilità, della povertà di linguaggio la quale scambiata per penuria di parole, porta alla follia, allorquando si tenti di sanare la prima espandendo a dismisura il possesso delle seconde.

E, se vogliamo, questa è anche una splendida metafora dell’attuale condizione di fondo delle nostre moderne società opulente, che si sforzano di seppellire nella pletorica ridondanza dei beni di rapido consumo la propria irrimediabile perdita del senso profondo della vita e della comunità.

 

Fabrizio De André e Un matto

 

Un matto
Un matto

 

De André arricchisce ulteriormente l’orizzonte di significato del testo di Masters, innestandovi il tema dell’invidia (con la scienza uno dei due assi portanti dell’album).
E’ questo infatti il sentimento che conduce alla follia il protagonista (“Gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro“).
Non si spiegherebbe altrimenti cos’è che spinga il signor Drummer a inerpicarsi su per quella interminabile montagna di parole fino a perdercisi dentro.

Ma c’è invidia anche dall’altro lato, quello dei sani di mente. Ogni villaggio ha infatti bisogno del suo scemo, come di banderuola che segni il confine tra il sano e l’insano, tra il lignaggio che la comunità comprende, ossia che contiene al suo interno, e quello che non le appartiene più.
Allo stesso tempo, tuttavia, il villaggio invidia al matto la sua libertà sconfinata, la perfetta irresponsabilità con cui conduce ogni sua azione, il suo dionisiaco “giocare col mondo facendolo a pezzi”, come recitava un testo degli Area che risale più o meno agli stessi anni di Un matto.

Ed è così che, per tempi immemori, la luce del giorno si è divisa la piazza tra il villaggio che ride e lo scemo che passa.

A un certo punto però il potere ha ritenuto di non dover più tollerare la devianza del folle nella pubblica piazza, e di doverlo quindi segregare dietro le sbarre di un manicomio, con la scusa di curare ciò che assai spesso non aveva nessun bisogno di cura, ma solo di accettazione.

Ed è brillante e sorprendente la maniera in cui Faber descrive come si sia giunti a tale esito a Spoon River, con gli “altri” (che poi altri non sono che i soliti “scribi e farisei ipocriti” di Matteo già sbeffeggiati nel Testamento di Tito), che ritorcono addosso al folle il suo stesso fiume di parole: “maiale”, “Majakovskij”, “malfatto”, e così via fino a giungere a “matto”, dove la sequenza si interrompe definitivamente.

Sullo sfondo si staglia tuttavia per tutti, sani di mente e squilibrati, l’esito disvelatore della morte. Tutto quello che in vita era confuso, dopo la vita diviene improvvisamente chiaro e distinto nei suoi limiti (“Eppure c’è luce ormai nei miei pensieri”). E questo perché la morte fornisce la misura della vita. Tutto ciò che in vita appariva smisurato, squilibrato, eccedente, viene pareggiato (‘a livella!) e finalmente si comprende in tutti i suoi contorni.

E’ davvero necessario che ciò accada? Non sarebbe possibile, e infinitamente meno doloroso, riuscire a giungere già in vita alla cognizione dei limiti della vita stessa?
La risposta che fornisce De André a conclusione dell’album è, come sappiamo, affermativa, ed è affidata alla voce sommessa e alle note suadenti del flauto del suonatore Jones.

 

Testo della canzone

 

Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza
tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro

E se, anche tu andresti a cercare
le parole sicure per farti ascoltare:
per stupire mezz’ora basta un libro di storia,
io cercai di imparare la Treccani a memoria,
e dopo maiale, Majakowsky, malfatto,
continuarono gli altri fino a leggermi matto.

E senza sapere a chi dovessi la vita
in un manicomio io l’ho restituita:
qui sulla collina dormo malvolentieri
eppure c’è luce ormai nei miei pensieri,
qui nella penombra ora invento parole
ma rimpiango una luce, la luce del sole.

Le mie ossa regalano ancora alla vita:
le regalano ancora erba fiorita.
Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina
di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina;
di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia
“Una morte pietosa lo strappò alla pazzia”.

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