“Per sempre coinvolti”: sguardi su Fabrizio De André

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“Per sempre coinvolti”: sguardi su Fabrizio De André
articolo scritto dalla musicologa Ilaria Castellazzi.

 

C’è chi ha ascoltato cento volte di fila “Amore che vieni, amore che vai” dopo una delusione d’amore – perché quando si soffre bisogna soffrire per bene! – e chi mente.

Fabrizio De André, o più semplicemente Faber, per chiamarlo con il nomignolo affibbiatogli dall’amico (e, in gioventù, collega di lavoro sulle navi da crociera) Paolo Villaggio, e che forse non tutti sanno derivasse dalla sua predilezione per le matite colorate Faber-Castell… spesso chi ne parla con grande familiarità ed ammirazione, definendolo grande poeta, non conosce che pochi versi delle sue canzoni più famose, e magari non sa che lui stesso non amava essere considerato poeta, bensì cantautore.

Vero è, d’altronde, che la sua formazione culturale, molto profonda, lo aveva avvicinato ai grandi classici della letteratura, antica e moderna – immediato il riferimento all’album “Le Nuvole” del 1990, citazione già nel titolo, che allude ad Aristofane, come a “Non al denaro, non all’amore né al cielo” (1971) ispirato all’Antologia di Spoon River di E. Lee Masters (tradotta nel 1945 dalla scrittrice Fernanda Pivano, grande amica di De André).  

E poi Leonard Cohen, Jacques Brel, Bob Dylan, Georges Brassens, considerato da Faber un maestro, nonché il quattrocentesco François Villon, l’ambiguo, provocatorio e rissoso poeta-delinquente che nelle proprie opere celebrava la vita dei fuorilegge e dei viziosi, tra bettole e patiboli, in un’atmosfera altalenante fra esaltazione e dannazione: alla sua “Ballade des pendus” De André si ispirò per “La ballata degli impiccati” (“Tutti morimmo a stento”, 1968), testo crudo e rancoroso, privo di qualsiasi riferimento al perdono, ed intriso di significati politici. 

La politica: terreno scivoloso e spesso mistificato, anche per via delle provocazioni che De André non mancava di gettare in pasto ai benpensanti…pensiamo ad esempio a quando disse: “Se nelle regioni del Meridione non ci fosse la criminalità organizzata, come mafia, ‘ndrangheta, camorra, probabilmente la disoccupazione sarebbe molto più alta”.

Una dichiarazione, volutamente forte, per cui la borghesia “bene” non poteva che gridare allo scandalo, allo stesso modo in cui si indignava nei confronti dei personaggi che popolavano le sue canzoni: assassini, prostitute, bambini di strada, ladri e furfanti, i reietti della società insomma, che di solito erano relegati ad un posto dove – possibilmente – non diventassero troppo visibili. Del resto, “è più comune trovare gente che ama Dio che il proprio prossimo: infatti Dio costa molto meno” (“Sotto le ciglia chissà. I diari“- Mondadori, 2016).  

 

La mitica Via del Campo delle “graziose” e dei diseredati, ma non soltanto: i vicoli, anzi i carruggi, genovesi, le periferie cittadine, ghetto per i vinti, il Mediterraneo ed i suoi colori, odori, suoni, la campagna tanto amata – l’infanzia, durante la guerra, in un paesino della provincia piemontese, Revignano d’Asti, e poi la Sardegna, terra di amore e di dolore, che non volle abbandonare nemmeno dopo l’esperienza buia del sequestro insieme all’allora compagna, poi diventata moglie nel 1989, Dori Ghezzi. 

 

La canzone, delicata e struggente, Hotel Supramonte vi allude nemmeno troppo velatamente; non soltanto nel titolo – che riprende non soltanto l’omonima e selvaggia località, ma è anche la locuzione con cui i sardi chiamavano la macchina dei sequestri – ma in un testo che non risparmia uno sguardo quasi benevolo ai propri sequestratori, tanto simili ai reietti delle sue canzoni, vittime e carnefici insieme. 

Al processo, De André avrebbe perdonato loro, ma non i mandanti del sequestro; del resto, un libero pensatore come lui, che fin dalla prima giovinezza aveva trovato nell’anarchia l’unico ideale in grado di aderire alla propria inquietudine e ricerca di giustizia sociale, non avrebbe potuto agire diversamente.  

 

Signora libertà, signorina anarchia”: impossibile scindere queste due figure-simbolo (canzone “Se ti tagliassero a pezzetti”, 1981). Da Bakunin a Brassens agli eventi del Maggio francese (trasposti musicalmente in “Storia di un impiegato”, del 1973), De André aveva immediatamente identificato gli anarchici come ribelli miserabili che si battevano per dare dignità e voce ad altri miserabili, che la società intendeva invece nascondere alla vista, come la polvere sotto al tappeto. 

C’erano, nell’anarchia, tutte le aspirazioni ad una democrazia spogliata da ogni potere acquisito, vera ed autentica, ad una giustizia sociale che, un po’ come la religione, non si limitasse ad una mera facciata, ma fosse finalmente egualitaria e veramente ispirata al messaggio cristiano.  

 

La Chiesa: altro punto dolente, altro bersaglio degli strali di un Fabrizio De André che con l’album “La buona novella” del 1970 aveva portato i Vangeli apocrifi nella musica, facendone manifesto e bandiera, ancora una volta, dei diseredati. 

La morale ipocrita e bigotta, gli indifesi, vittime dei soprusi di chi dovrebbe proteggerli, le leggi inflessibili applicate con violenza: lo stesso Gesù è prima di tutto uomo, nonché rivoluzionario ante litteram, schiacciato da un mondo in cui non c’è posto per la fratellanza e l’amore che va predicando.  

Una (ri)lettura che scuote le coscienze, e disegna, nel ripercorrere la vita di Maria e Gesù, un ritratto impietoso e sinistro di una Chiesa che ha tradito il messaggio di Cristo diventando ottusa religione, e piegandosi alla brama di potere e al denaro.  

Famosissima e potente la penultima traccia, ovvero “Il testamento di Tito”: il ladrone che ripercorre tutti e dieci i Comandamenti, in sequenza, può apparire inizialmente blasfemo, ma in realtà diventa incarnazione e voce di un peccatore che si apre all’amore e alla pietà, al contrario di chi lo giudica con severa, ipocrita intransigenza (“Il settimo dice: non ammazzare / Se del cielo vuoi essere degno / Guardatela oggi questa legge di Dio / Tre volte inchiodata nel legno” – “Lo sanno a memoria il diritto divino / E scordano sempre il perdono”).  

 

Prima di chiudere questi “sguardi” su Fabrizio De André – che non seguono volutamente un ordine cronologico né vogliono essere un catalogo delle sue composizioni, ma, appunto, sono sguardi sull’uomo, sul cantautore, sulla sua musica e poesia – impossibile non far cenno all’album con il quale volle rendere omaggio alla sua città disegnandone un ritratto colorato, caotico, scintillante di vita e di miserie, ripescando (è il caso di dirlo!) i suoni del Mediterraneo andando a scovare strumenti etnici e sonorità dimenticate.

Si tratta ovviamente di “Creuza de Mä” (1984), in collaborazione con Mauro Pagani (che avrebbe lavorato con De André, insieme ad Ivano Fossati, anche a “Le Nuvole”). 

Sonorità greche, turche, berbere, mediterranee insomma, unite alla cultura musicale tradizionale di Genova, testi in genovese antico: un successo inaspettato – i discografici ritenevano che nessuno avrebbe ascoltato testi incomprensibili! – che venne premiato con la Targa Tenco e decretato dalla critica come “Miglior disco italiano degli anni Ottanta”.  

Nei ringraziamenti del disco si legge “Un grazie particolare al mare di Paraggi”.  

 

Il mare: personaggio vivo, pulsante e vero più che mai, che si insinua in ogni piega dell’esistenza lasciando un’impronta indelebile. 

Per Fabrizio De André, schivo fino alla timidezza patologica, per niente amante del palco – che viveva, anzi, con ansia – diventa un respiro che placa l’inquietudine, un ambiente che non è soltanto natura, ma radici, casa, immagine e figura di un assoluto cui abbandonarsi senza riserve, inseguendo una solitudine che non è prigione ma cura dell’anima.  

 

Così, ecco le “Anime Salve” – 1996, title track nonché album, un concept a quattro mani con Ivano Fossati, con interessanti influenze etniche dai Balcani all’America del Sud, che è anche testamento e congedo poiché l’11 gennaio 1999 De André, a soli 58 anni, sarebbe morto per un cancro ai polmoni.

Si tratta degli spiriti solitari come lui, che trovano pace soltanto nel sottrarsi ad un mondo, ad un’identità costruita ed imposta dalla società che vorrebbe schiacciarli, uniformarli, soffocarli.  

 

Mi sono visto che ridevo 

Mi sono visto di spalle che partivo 

ti saluto dai paesi di domani 

che sono visioni di anime contadine 

in volo per il mondo 

Mille anni al mondo mille ancora 

che bell’inganno sei anima mia 

e che grande questo tempo che solitudine 

che bella compagnia. 

 

Chi è Ilaria Castellazzi?

Ilaria è laureata in Musicologia e diplomata in pianoforte.
Insegna Lettere, Pianoforte e Storia della Musica; suona sia in formazione classica che moderna; scrive testi e si occupa di regia per il teatro.
Specializzata in Drammaturgia musicale e ama follemente l’Opera..

Ilaria scrive di musica da sempre, non soltanto per lavoro, da musicologa tiene guide all’ascolto e prepara programmi di sala per concerti e spettacolim ma anche e soprattutto perché, oltre alla musica, la sua grande passione è scrivere, e nella musica trova l’ispirazione più bella.
Infatti la sue pagine social si chiamano “Parole di musica”!

Ecco come leggere le “parole di musica” di Ilaria Castellazzi:

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